E così eccolo, il libro che invece avrei voluto scrivere io. Un romanzo punteggiato, scandito dallo yoga, in cui ogni capitolo ha il titolo di un’asana. Non dico che fosse un’idea originale, solo che l’avevo avuta anch’io ma era finita nel cassetto dei “farò”. Questo poi è stato scritto da una giornalista critica letteraria, pensatrice compulsava e adoratrice della letteratura, che qui fonde la gioia della asana a quella delle parole. E direi che ci siamo. Per fortuna non sono una persona invidiosa, e Il cane a testa in giù (Sonzogno Editori) me lo sono goduto dalla prima all’ultima pagina.
Lieve e intelligente, l’ho sfogliato con avido piacere quasi tutte le sere prima di addormentarmi, cullata da parole ben scelte nel descrivere lo scorrere della vita “normale”, accarezzate da uno sguardo acuto e riflessivo, condito in ogni capitolo di parecchie gemme yogiche. L’autrice segue l’andamento della sua vita dalla nascita della prima figlia agli anni in cui la sua famiglia diventa ufficialmente “adulta”, con i pro, i contro e gli incidenti di percorso, parallelamente a flashback sulla sua infanzia anomala, affascinante e lievemente psichedelica. Allo stesso tempo, porta anche avanti la sua scoperta dello yoga, a cui si avvicina riluttante nelle prime pagine ma che subito diventa guida, faro, presenza costante e luminosa, eppure mai dogmatica e mai esaltata.
Questa presenza si articola in due modi: da una parte, i progressi dell’autrice nella pratica, la scoperta dei vari stili, la critica (bonaria) alle insegnanti modelle e agli studenti modaioli, l’avvicinamento al vinyasa, l’ebbrezza del primo sirsasana, la paura della verticale, l’onestà del riconoscere i benefici anche estetici della pratica costante. Dall’altro, la sua esplorazione dei testi yogici, che portano la protagonista-autrice a condividere con chi legge il suo graduale, e genuino, avvicinamento agli Yoga Sutra di Patanjali, ai Veda, alla Bagavad Gita, alla Hatha Yoga Prandipika, alle Upanishad. Alla fine ti trovi un po’ tra le mani una sorta di vademecum dei classici dello yoga, i cui contenuti sono distillati in piccoli lampi di comprensione semplice e alla portata di tutti
Tutto scorre in parallelo, tutto si fonde in modo piuttosto armonioso (magari chiamare “posizione del bambino” tutti i capitoli dedicati all’infanzia non è troppo fantasioso, ma sono peccati veniali), e il percorso evolutivo della protagonista di questo memoir è coerente e si segue con affetto. A un patto: va tenuto sempre conto che, in questo romanzo di (tarda) formazione, stiamo parlando di quelli che un anglosassone un po’ cinico, o un membro del Saturday Night Life, potrebbe chiamare “White people problems”, come dire “problemi non problemi”.
La vita dell’autrice è chiaramente quella di una privilegiata: lei e il marito fanno lavori intellettuali, hanno famiglie presenti e generose, amici calorosi e divertenti, hanno rispettato tutte le tappe richieste dal loro contesto sociale apparentemente libero (la Seattle dagli anni ’90, quella per intenderci del movimento No Global, a oggi) ma di fatto alquanto strutturato: sul fatto che intorno ai 20 anni ci si dedichi a feste, concerti, fumo e amore libero, a 30 ci si sposi, più avanti ci si possa concedere di lavorare meno e/o meglio e andare a vivere nel verde, si inizi a riprodursi assieme alle amiche e a sfogliare insieme manualistica alternativa sull’educazione di bimbi radical chic, l’autrice non sembra avere dubbio alcuno. Tutti i suoi dubbi, i suoi problemi e anche la sua acuta ironia sociale restano all’interno di questo schema tutto sommato prevedibile e soprattutto autoreferenziale.
Tuttavia, le emozioni e le riflessioni della voce narrante sono genuine, rinfrescanti, e soprattutto ben orchestrate, pennellate con metafore fantasiose e dipinte con lucidità. Particolarmente emozionante (Spoiler Alert) la seconda parte del libro, quando la famiglia parte in un lungo on the road lungo l’Ovest degli Stati Uniti, abbandonando le nebbie dello Stato di Washington per immergersi nella natura selvaggia del Colorado, in una bizzarra dimensione montana che sposa animali selvatici e buddisti, trekking e yoga, intimità familiare e solitaria comunione con la natura. Abbandonata Seattle e senza praticamente mai nominare le poche città con cui la maggioranza delle persone identifica gli Usa, l’autrice ci porta invece alla scoperta di inusuali mete con culture e reputazioni altrettanto definite e radicate, anche se meno note da noi, da Boulder in Colorado a Bainbridge Island fuori Seattle.
Alla fine vado a vedere chi è questa autrice e scopro che non è così strano che mi colpisca la qualità della sua scrittura: Claire Dederer è critica letteraria per il New York Times e The Atlantic, questo libro è stato best seller da quando è uscito nel 2010 ed è stato già tradotto in diverse lingue. A proposito: la traduzione italiana del titolo è lievemente più enfatica del necessario e non rispecchia la leggerezza originale: Al posto dell’originale “Poser” (ovvero “chi si mette in posa”, in tutti i sensi) è stato messo quel Cane a testa in già, e il sobrio “La mia vita in 23 posizioni di yoga” è diventato “Le 23 posizioni di yoga che mi hanno cambiato la vita”. In realtà no, la vita di Claire non ha davvero bisogno di essere salvata e lo yoga non la trasforma in modo radicale, ma è vero che la accompagna in un viaggio piacevolissimo in cui camminano a braccetto Iyengar e i no logo, le asana e l’aria del deserto, i puma e la marjuana, gli asili-cooperativa e il chaturanga, Patanjali ed ecologia, campeggi fra i pini, università di cultura buddista, maxi-scuole di yoga e piccoli studi di periferia. Lo sguardo di Dederer è accogliente e penetrante. Credo che regalerò questo libro a più di una persona, questo Natale.
Il Cane a testa in giù, le 23 posizioni di yoga che mi hanno cambiato la vita
di Claire Dederer
350 pagine
Sonzogno, 2016