Il Milano Yoga Festival quest’anno chiamava. E, come diceva quel tale milanese, la sventurata rispose. Il Superstudio come sempre scintillava di attività, e così via Tortona, che avevo lasciato modaiolo tempio del design e ho ritrovato abbellita di un museo (il Mudec delle Ex Ansaldo), di alcuni food truck (ottimo ma un po’ caro tramezzino + centrifuga da God Save the food) e di un’energia e un sole che, in così bella combinazione, non vedevo da parecchio nella capitale morale.
Ma torniamo al Festival: anche lui, che ho seguito dal primo anno, è migliorato. Dalla scorsa edizione lo spazio per scuole ed espositori è stato compattato in modo più intelligente e armonico, mentre l’offerta di corsi e insegnanti resta ricca. Io sono stata solennemente pigra e ho seguito unicamente la lezione di Piero Vivarelli (non solo perché mi aveva dato un passaggio in macchina: ma grazie maestro, anche per questo). Dedicata alla pratica come atto d’amore, è stata una masterclass affollata, equilibrata ed energizzante. Nonché allietata dai vocalizzi di una bimba di sei mesi che assisteva dalla sua palestrina improvvisata mentre la mamma praticava sotto un raggio di sole.
Poi mi sono tuffata molteplici volte nel dedalo di tappetini, statuine, mala, pietre, magnesio, cristalli, lycra, cotone bio, tisane, cuscini e semi di chia. Insomma tutto quello che mediamente si trova in ogni kermesse etichettata come bio o olistica, ma in questo contesto piuttosto contenuto e non troppo alienante. Direi quasi appetitoso. Calmati i miei appetiti con un po’ di rifornimento di yoga clothing, ho potuto studiare anche gli stand delle scuole, prendere volantini di retreats in Costa Rica e Fuerteventura, su cui fantasticare di vacanze futuribili e possibili cambi di vita/scenario/continente, e regalarmi un massaggio ayurvedico.
Qui in zona Ayurveda, mentre solo una delicata tenda gialla mi separava dallo scalpitare vociante dei visitatori, per dieci euro e 30 minuti ho potuto apprendere che la mia schiena è molto forte, che il mio piccolo massaggiatore dalla barba bianca è un ex fotografo di moda (ma sa fare il suo nuovo lavoro meravigliosamente), che il Panchakarma comprenderebbe una serie di azioni un po’ troppo intense per attrarmi (per il momento mi basta massaggiare il corpo dall’esterno), e che ogni essere umano meriterebbe di avere tutti i giorni qualcuno che gli spalma olio sulla schiena raccontandogli storie. Per poi ricambiare, eventualmente.
Back to the festival, in cui la percentuale di curiosi/appassionati è nettamente superiore a quella di fanatici/invasati, mentre la quota femminile resta, pur con lodevolissime eccezioni, dominante, l’atmosfera è ormai quella di una realtà affermata, solida come lo è oggi il business dello yoga (piaccia o meno, è anche business), anche in Italia. Due grandi, candide sale di lezioni a pagamento con alcuni nomi importanti (da Stewart Gilchrist a David Sye), e altre due sale open space con lezioni gratuite. La gente è il solito mix: Di-ritorno-da-Bali, Ti-piace-il-mio-tatuaggio, Io-sono-puro-e-tu-no e, la maggioranza, semplici persone sorridenti con tappetino a seguito.
Io invece il mio l’ho lasciato nel corner della mia scuola e all’ora dell’aperitivo, da vera milanese (9 anni passati qui lavorando “nei midia” non sono trascorsi invano) sono andata non a bere un Negroni sbagliato ma a una svendita. Eh sì. Dove ovviamente sono entrata sentendomi purissima e al di sopra e da cui sono uscita con una camicetta frou frou. Che tra parentesi non potevo permettermi. Ma namaste. Anche perché ho ritrovato una Milano bella, vivace, entusiasta e piena di novità. E le ho di nuovo voluto un po’ di bene. Quindi grazie allo Yoga Festival anche per avermi fatto pensare che, dopo tutto, la cara vecchia Milan l’è un gran Milan. E ama lo yoga.
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