Venerdì scorso ho avuto la fortuna di praticare con Tara Judelle, bionda creatura originaria di Los Angeles che vive raminga fra Bali, la Grecia e le destinazioni esotiche in cui è richiestissima per insegnare. Scorrere il suo sito e vedere che i suoi appuntamenti balzano da Sidney a Goa rende improbabile, e piacevolissima, la sua tappa bolognese. In realtà così bizzarro non è: Tara è amica di vecchio corso del mio maestro, entrambi hanno studiato Anusara con John Friend. Poi, dopo anni di insegnamento, lei si è un po’ allontanata dall’Anusara (no, non come hanno fatto in tanti subito dopo lo scandalo “John Friend with benefits” del 2012, ma solo l’anno scorso) per iniziare a inseguire ed elaborare il suo metodo, che ha chiamato Embodied Flow. Ed è proprio questo “flusso incarnato” (traduzione che rende malissimo le sfaccettature dell’originale) che ha portato a Bologna, in una sala stracolma, dal clima tropicale e quasi interamente farcita di avidi praticanti di Anusara, vale a dire fedelissimi di allineamento, rigore, fatica e costanza (ok, ok, ora sto descrivendo soltanto me). Ed ecco cosa ho imparato.
1) La new wave delle insegnanti globetrotter è fatta da incantatrici
O storyteller, se preferite i termini inglesi alla moda. Io amo chiamarle “incantatrici” perché rende meglio l’idea del loro approccio, nonché dell’espressione vagamente ebete con cui tutti, me compresa, abbiamo ascoltato Tara parlare per una buona mezz’ora a inizio workshop. Hanno doti affabulatorie anche altre star dello yoga che ho incrociato ultimamente, da Sianna Sherman a Desiree Rumbaugh, ma Tara è una spanna sopra. Pendevamo tutti dalle sue labbra e lo sguardo ogni tanto vagava sui lunghi capelli biondi da fatina, sul corpo voluttuoso di eterna ragazza gaudente, sui ricercatissimi e leggeri gioiellini dorati che le adornavano polsi, dita, collo, orecchie. Poi tornava sui sui occhi intelligenti.
2) Il sense of humor è concesso. Anzi: è fondamentale
Anche perché è la sola chiave con cui affrontare discorsi sul Sé, il Tutto, l’Ego, l’Universo, senza lasciarsi prendere la mano e senza perdere per strada scettici, razionali e persone dal limitato attention span (anche qui parlo di me). Il guizzo vivace negli occhi di Tara e la naturale capacità di stemperare un discorso serio con una battuta (non per niente ha una laurea in letteratura, un passato di sceneggiatrice e, come mi ha confessato, le parole sono state a lungo “la sua ossessione”) sono quello che ai miei occhi la rende particolarmente credibile.
E poi si entra nel vivo della lezione. In tutte le due ore di pratica, ripeteremo al massimo tre sequenze. Anche abbastanza semplici: 7/8 asana da allacciare l’una all’altra con il proprio ritmo, seguendo i respiri e trovando le transizioni più morbide. Qui ho sperimentato la libertà di perdermi totalmente dentro la mia pratica, del tutto dimentica di chi avevo intorno e senza argini temporali in cui muovermi.
Osservando Tara muoversi nelle asana o gesticolare nelle spiegazioni, mi è venuta in mente l’immagine di una donna senza spigoli. Segue ed esegue traiettorie curve, invita a praticare con morbidezza, favorisce la sperimentazione di un movimento fluttuante privo di linee spezzate e di cesure, in cui un’asana scivola nell’altra senza sforzo apparente.
Abituata come sono a eseguire molti movimenti in contrazione, per controllare ogni centimetro del mio corpo in modo da eseguire l’asana nel modo più corretto possibile (maledetta/benedetta danza classica), ho presto realizzato che quel tipo di rigore formale e muscolare mal si associava al flusso ripetuto di continue serie di asana, perché troppo faticoso e impegnativo. E ho provato a mettere un po’ meno tensione e un po’ più di morbidezza nell’esecuzione.
Questo è stato il momento di svolta in cui, esausta, sudatissima e provata dall’effetto serra che si era ormai creato nella sala, stavo per gettare la spugna. Quando Tara ci ha detto «Usate la stanchezza» ho provato a farlo, integrando nel movimento le richieste di “basso consumo” del mio corpo. Risultato: una pratica più gentile, lenta, con ancor meno spigoli.
Piccola divagazione personale. Ho studiato danza per dieci anni e cercare la grazia e l’armonia estetica è sempre stato scolpito nella mia personale grammatica del movimento. Però da quanto pratico yoga ho cercato di liberarmi degli “orpelli danzerecci” in favore di un movimento più asciutto, meno frivolo. Come se la vanità fosse un peccato, e la bellezza una deviazione dalla pratica. In due ore con Tara, ex danzatrice a sua volta, ho capito che non era necessario e mi sono sentita legittimata non solo ad accettare l’eventuale bellezza nell’esecuzione di un’asana, ma anche a cercarla, inseguirla, amarla come qualcosa che non la snatura la pratica, ma la impreziosisce.
A un certo punto ho fatto una pausa fotografia (è la mia classica exit strategy quando sono molto stanca durante un workshop e mi serve una piccola tregua: fingo di non potermi trattenere dall’urgenza artistica di fare qualche foto al resto della classe), che mi ha dato l’occasione di osservare anche gli altri: svolazzanti senza ritegno. Ormai ognuno era nel suo ritmo e nel flusso, e ciascuno fluiva da una posizione a un’altra con le transizioni più spontanee. Sarà anche stata la deviazione artistica a dirigere il mio sguardo verso ex danzatrici, ma ho visto parecchie braccia che si libravano e mani che accarezzavano l’aria guidate da polsi sciolti e sguardi sognanti.
9) Il potere ipnonitico della musica
Non è certo una novità, né serviva un workshop per apprenderlo. Ma praticare in modo libero, quasi come un’improvvisazione (anche se le asana da eseguire erano specifiche, come detto, ognuno si muoveva in autonomia), mentre sullo sfondo sonoro scorre un mix elettronico tutt’altro che casuale (menzione d’onore per l’elettro-rilettura di Within You Without You dei Beatles) con nenie e beat che si inseguono a volume basso e senza interruzione, è un esercizio potente. Aggiungiamoci i circa mille gradi della sala, i corpi ormai in via di liquefazione, i vetri appannati, ed eravamo tutti a un attimo dalla trance.
10) I miei maestri restano altri
Ho apprezzato moltissimo la lezione di Tara Judelle, mi sono stancata parecchio, ho imparato cose di me, ho terminato con un lunghissimo e malinconico savasana che mi ha rivelato molte cose riguardo lo stato del mio cuore, decisamente ammorbidito e reso ancora più sincero dalla pratica. Detto questo, sono contenta di averla assaporata dopo una lunga preparazione con il mio maestro e con il mio stile, l’Anusara. Sono certa che per qualcuno meno “strutturato” possa essere più facile e automatico fluttuare nella leggerezza, nella morbidezza e nell’autonomia come suggerisce Tara, ma a me piace il concetto di volare e al contempo radicarsi, ovvero conoscere la grammatica del movimento, rispettarne le griglie e gli allineamenti, e proprio da lì partire per giocare, danzare e tentare sconfinamenti ed equilibrismi: lo trovo un esercizio molto più creativo che improvvisare tout court, senza alcuna base. E poi ho imparato ancora una volta che c’è un altro maestro alle cui parole tengo moltissimo: sono io. E anche se è bello venire ammaliati e trasportati in una lezione intensa e una pratica semi-ipnotica da un’autorevole guida, sono contenta di essermi concessa di mettere in dubbio le parole di Tara (che magari non ho compreso io) quando diceva di ignorare la stanchezza e interpretare certi segnali del corpo (fame, sete, fatica) come un modo come un altro con cui la mente cerca di distrarci. A volte è vero, a volte no. Anche rispettare il proprio corpo e i propri tempi, prendersi una pausa se si sente che è il momento di prenderla, è un esercizio di pratica amorevole, gentile e senza spigoli.