Della intensissima due giorni di Immersion Anusara fatta lo scorso week end, mi sono rimaste alcune tracce nel corpo: cosce toniche (leggi: doloranti); parte alta della schiena che mi sussurra a gran voce (non è un ossimoro casuale, è il mio modo di non darle retta, senza ahimè riuscirci) che sì, lei sarà pure forte, ma io con i loop ho esagerato; respiro che si è sciolto un po’, e con lui i pensieri.
Loop: di che si tratta? Non ve lo dirò, perché fa parte di quel piccolo tesoro di nozioni e lezioni che si studiano con gli insegnanti qualificati in un corso, e che non mi pare giusto divulgare senza avere le competenze per farlo. Ma diciamo, a grandi linee, che è un lavoro di raffinamento sulla posizione e disposizione di diverse parti del corpo, dalle caviglie fino al bacino, e poi su su fino alle spalle e alla nuca. E che prevede un’attenzione mirata al dettaglio mentre si esegue l’asana.
Anche se non si tratta nello specifico di un lavoro di radicamento, portare la concentrazione sul modo in cui caviglie e polpacci si attivano ha attivato un modo diverso di creare la posizione, meno esteso inizialmente, ma in realtà soltanto meno iper-esteso. Come ha detto intelligentemente un compagno di corso, è stato come mettersi delle “cinture di sicurezza”. E, come ha puntualizzato il mio maestro, con queste cinture si può anche aumentare la velocità.
Così mi sono ritrovata a fare un virabhadrasana II molto più stabile e radicato, e degli altrettanto solidi parsvakonasana, trikonasana e ardha chandrasana. La concentrazione non era più nella volontà di estendere, allineare e slanciare (tutto quello che, tra parentesi, amo del guerriero), né di librarsi (vedi alla voce ardua chandrasana) ma nel creare basi consapevoli. Il godimento è stato senza dubbio minore (iperestendere, per me, significa abbandonarmi al piacevole stiracchiamento del felino), le sensazioni diverse, ma il viaggio è molto interessante.