La cosa più bella, quando ti confronti con alcuni “influencer” dello yoga d’oltreoceano, è l’immediata percezione di quanto siano gentili. Dopo Marc Holzman, che per la rubrica di traduzioni “Le parole degli altri” ci aveva regalato il suo toccante faccia a faccia con una malattia, è la volta di scoprire il punto di vista di J. Brown: insegnante di yoga, scrittore, podcaster, “leader nella Slow Yoga revolution”, è stato più volte citato in Yoga Therapy Today, The International Journal of Yoga Therapy, e nella blogosfera in generale. Ha anche un suo sito, jbrownyoga.com, dal cui blog abbiamo estratto il post che leggete qui di seguito. Diciamo che è un pezzo che entra a gamba tesa su un dibattito aperto, molto americano ma non troppo, su cosa sia oggi lo yoga alla luce delle tantissime derive commerciali e modaiole. Sicuramente è un pezzo che dà molte informazioni per già acquisite, ma ne apprezzo la franchezza, il procedere per dubbi e lo stile decisamente personale. In più, fra quando ho chiesto a J. Brown il permesso di tradurlo e ri-pubblicarlo a quando mi ha risposto, aggiungendo “Considerami una fonte”, sarà passata meno mezz’ora. Non so che ora fosse in America ma so che ho trovato una persona tanto critica nella scrittura quanto gentile e umile nei modi, e ogni giorno di più credo che anche la gentilezza sia yoga. Buona lettura.
NB. Non sono una traduttrice professionista. Perdonate le eventuali libertà che mi sono concessa nel tradurre questo pezzo a tratti assai ostico. Le evidenziazioni in grassetto le ho aggiunte io.
Amo lo yoga e odio tutto ciò che lo riguarda
(di J. Brown. Originariamente pubblicato qui)
La cultura pop continua a godersi il suo vacuo love affair con lo yoga. Ma molti praticanti e professionisti di lungo corso stanno scoprendo che, da qualche parte lungo il loro percorso nell’ultimo decennio circa, deve essere cambiato qualcosa o in loro o nello yoga. Persone che un tempo erano yogi incalliti cercano di scorgere cosa è rimasto, ammesso che qualcosa sia rimasto, della loro pratica dinanzi alla prova del tempo, e la loro relazione con lo yoga deve concedersi di evolvere, o si sentiranno costretti a separarsene.
Sono un classico già da anni le lamentele sul proliferare dei teacher training e su quanto il mercato dello yoga sia più che saturo. Solo di recente gli studi economici hanno davvero iniziato mettersi in pari e a dare ragione ai pronostici. Per gli umili insegnanti di yoga, che sperano di guadagnarsi da vivere attraverso la loro passione, il panorama contemporaneo sembra spesso oscurato da un senso di penuria che spaventa, e che è così in contrasto con l’abbondanza dei tempi del boom, di cui hanno goduto le generazioni precedenti. Se a questo aggiungiamo l’emergere di un nuovo orientamento, che suggerisce una base tenue su cui guru carismatici originariamente acquisivano la loro autorevolezza, la cruda realtà è che un bel po’ di quello che era stato accolto in buona fede non si è rivelato autentico, e viene assai facile pensare che le cose inizino ad andare a rotoli.
Separare la pula dai chicchi di grano
Ora che lo yoga non sembra più governato da quei pochi maestri, e imprese imprenditoriali e tecnologiche, ben finanziate e basate sull’analisi dei dati, hanno completamente cambiato lo scenario, trasparenza e autenticità sono il nuovo terreno da cui partire per prendere posizione. I praticanti seri, che hanno visto l’esplosione del caos e adesso guardano loro malgrado il mondo attraverso lenti di un nuovo colore, stanno mettendo in discussione non solo quello che esce dalla bocca dei maestri, e le forme che questi incoraggiano ad assumere, ma anche le immagini e i miti che sono arrivati a caratterizzare uno stile di vita leggendario, ma che esiste soltanto come specchietto per le allodole, per farci sorbire la sbobba che ci viene servita.
Io, di sicuro, ho esaminato quello che faccio come insegnante più che mai prima d’ora. E sento che le mie posizioni, occasionalmente fin troppo imbevute di alti principi ma che ho vissuto bene nel passato, ora non reggono più allo scrutinio. Chi c***** sono io per dire a chicchessia qualcosa sul suo yoga? Al di là dell’approccio e del fine che qualcuno adotta, se si va davvero incontro, senza danno, ai desideri di chi riceve, e se ci sono dei benefici percepiti o reali, allora, dico, tanto meglio così. Certo, molte persone concorderanno sul fatto che si sente una bella differenza quando il motore alla base di un insegnante è qualcosa di più profondo della gratificazione immediata o finanziaria di assecondare delle aspettative.
Di chi ti fiderai? Di te o dei tuoi occhi che mentono?
Pochi di noi credono di essere perfetti, già ben imbevuti fin dalla nascita di tutto quel che serve. Anche chi arriva a credere una cosa del genere trova spesso difficile rimanerci aggrappato quando così tanto nel mondo esterno sembra dire l’opposto. Di conseguenza, molti di noi sono naturalmente suscettibili alle influenze esterne che facilmente offuscano le nostre percezioni e che possono compromettere il nostro senso del sé come sorgente di sapere o comprensione.
Ancora più disorientante è quando la nostra esperienza di guarigione attraverso la pratica è un misto di esperienze profondamente positive e di dubbi che ricadono in uno spettro che va dall’innocente all’atroce. Eppure, la maggior parte delle persone che si dedicano a una pratica costante nell’arco di un lungo periodo hanno riscontrato in questo un beneficio genuino. Anche quando nella pratica qualcosa va storto e si finisce con un danno di qualche tipo, spesso non riusciamo a negare una certa sensazione che non sia stato tutto vano. Che a dispetto della nostra “malfunzione”, resta comunque qualcosa di magico in quella cosa che a volte chiamiamo yoga.
Il self-empowerment è una strada a due sensi
Man mano che si assottigliano le possibilità per i singoli insegnanti di fare dello yoga la loro fonte primaria di sostentamento, gli studenti sinceri che spuntano con in mano il loro certificato delle 200 ore e il bisogno di condividere dovranno affrontare delle scelte estreme. E’ difficile confrontarsi con il distacco tra il potere trasformativo che alcuni sperimentano attraverso lo yoga, e le demoralizzanti convenzioni e rappresentazioni che ancora caratterizzano la sfera mediatica e commerciale. Se non amate veramente insegnare yoga al punto che vostra domanda non è “se” ma “come”, allora è meglio non porsela proprio.
Per me, c’è una distinzione tra lo yoga e l’industria commerciale dello yoga. In pratica, sento quel certo non so che di inspiegabile che modella le mie percezioni in direzioni profondamente utili. Offrire la mia comprensione di questo processo come un servizio in cambio di denaro, benché profondamente formato dalla mia pratica, è una missione del tutto diversa. A volte mi domando se non sarebbe meglio soddisfare le mie esigenze terrene attraverso altri mezzi e lasciare il denaro lontano dallo yoga. Ma se i benefici dello yoga al di là del fitness devono comunque essere comunicati nelle nostre società capitaliste, allora avranno bisogno di trovare un modo per competere nel mercato, se non vogliono essere relegate nell’oscurità. Se sentiamo che dobbiamo assumerci questa responsabilità, è necessario riconoscere le tendenze più deprimenti non come il segno che lo yoga ha fallito, ma come il continuo lavoro dell’umanità alle prese con le prove dei nostri tempi.
ps. Grazie a Zack Kurland per il titolo
p.p.s. Per qualche considerazione più approfondita, ascoltata il podcast di questa settimana con Sadia Bruce.