Finalmente visto La La Land. Lo aspettavo da settembre questo gioiellino e non mi ha deluso. Anzi, ha dischiuso un piacevole flusso spontaneo di pensieri. Per prima cosa, mentre ero in sala nel mio cinema preferito, mi è tornata in mente quella domenica sera di un paio di mesi fa, di ritorno dal mio week end di teacher training, quando dopo cena mi sono messa a guardare una serie tv (Crazy Ex Girlfriend, che ogni tanto parla anche di yoga). Caratteristica del serial sono i numeri musicali che irrompono in scena. Benché molto carini, mi trovano spesso irrequieta, tipica vittima della frammentazione temporale figlia di multitasking, Facebook e smartphone. I protagonisti partono con un riflessione ironicamente cantata e ballata e io sono in difficoltà nell’accettare quella pausa coreografica in cui la storia, nel passare da A a B, si concede di fatto di non far succedere niente.
Ecco quella sera, dicevo, avevo quel bel senso di rallentamento e spazio interiore che non puoi non avere dopo due giorni a base di asana e respiri, e ho notato che seguivo con più fluidità i numeri musicali. Un dettaglio più significativo di quanto possa sembrare: non ero semplicemente più paziente (anche se, certo, ero molto rilassata), si trattava proprio del piacere e dell’accettazione di stare nel momento, di accettarne tanto lo scorrere rapido quanto le pieghe più lente e, in apparenza, inutili. Di non avere fretta di correre da A a B. Di respirare.
Lo stesso mi è accaduto durante La La Land. Entrata nel suo delizioso meccanismo di narrazione dopo il primo istante, notavo che per quanto li apprezzassi moltissimo i momenti musicali, gli stessi sotto sotto mi infastidivano, per la sola ragione che rallentavano l’azione: era un vero misto di piacere e disagio. Volevo sapere dove andava lui, che pensava lei, come procedeva la storia, ma quelle pause – benché stupendamente coreografate e perfettamente girate – mi forzavano ad aspettare un po’.
Ne ho preso nota, senza giudicare (divertente questa: certo che mi sono giudicata. Ma almeno so che in quanto yogini sarebbe meglio di no…) e ci ho respirato dentro. Era solo questione di ricordarsi come si fa. Quelle pause non erano interruzioni, semmai inviti a prolungare il senso e l’assorbimento della storia. E mi hanno ricordato un’altra pausa: quella fra i respiri. La famosa pausa fra un respiro e l’altro (ma anche quella fra inspirazione ed espirazione) che nella pratica del pranayama (e non solo) si impara a rispettare e valorizzare. Sì insomma, i numeri musicali per me erano come le pause fra un respiro e l’altro.
Del resto non è la prima volta che trovo analogie fra cinema e yoga. O almeno nel modo in cui vivo le due esperienze. Mi capitato spesso di definire il savasana a fine pratica i titoli di coda di una lezione. Prima ancora di scoprire lo yoga, quando ero solo una appassionata cinefila, stentavo a capire come la gente potesse brutalmente alzarsi e uscire dalla sala (ma soprattutto uscire dall’esperienza) appena finito il film, senza restare in quella dolce transizione fra la storia e il ritorno alla realtà che alla fine sono i titoli di coda. E che, come il savasana, danno gentilmente il tempo di assorbire l’esperienza (di affabulazione nel caso del cinema, di yoga nel caso di una pratica).
E spingendomi un po’ più là, ma nemmeno tanto, si può dire che il raccoglimento di mantra e mini-meditazione con cui cominciano le lezioni (almeno quelle a cui vado io…) sono i titoli di testa. Momenti cruciali e indispensabili per non vivere in modo frettoloso e, alla fine, poco “nutriente” tanto la pratica quanto il film.

Vi sembrano riflessioni troppo fantasiose? Io le trovo naturalissime. In ogni modo, l’avevo dichiarato nel titolo che questo sarebbe stato un post freestyle. Namaste. E andate a vedere La La Land.
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