Yogini & the city

Riflessione di chi si è sentita cugina di campagna nella “sua” metropoli,

e ha dato la colpa allo yoga

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Di recente sono stata a Londra, e al ritorno mi ci sono voluti due giorni di totale isolamento, candele accese e nag champa per riprendermi. Premessa: Londra la conosco bene, ci ho vissuto per qualche anno e la frequento da una vita. Eppure questa volta mi ha sopraffatto. Non era la prima volta, per la verità: anche in passato, anche mentre ci vivevo, mi è talvolta accaduto di sentirmi travolta, esposta ed estranea in questa città sfavillante e frenetica. Più che in altri luoghi, nella capitale inglese sono cruciali il quartiere in cui ti trovi, le zone in cui ti muovi e chi ti è eventualmente accanto, perché l’atmosfera cambia in modo così radicale che chi non ha la dura corazza del londinese (puro o d’adozione) può andare in sovraccarico di stimoli, non sempre positivi. Ma non sono qui a scrivere di Londra in sé, quanto piuttosto del rapporto tra sensibilità e metropoli, e tra stress e yoga, su cui il mio recente viaggio ha messo l’attenzione.

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La copertina di Yoga Woman, documentario di qualche anno fa sulle principali promotrici dello yoga in Occidente, riportava l’immagine di una fanciulla in abiti manageriali che, seduta nel loto sopra un taxi, assaporava le gioie della meditazione. Imperturbabile e indisturbata dal traffico e dalla confusione, lasciava che New York le vivesse intorno senza esserne scalfita. È questa l’idea che molti hanno del tipico praticante yoga: «Tu sei a un altro livello», «Tu di sicuro sai come non farti coinvolgere», «Tu devi essere bella schermata», e via dicendo. La mia percezione però è un’altra. Da quando pratico con passione, è come se mi fossi tolta un ulteriore strato di pelle e fossi diventata ancor più sensibile e permeabile rispetto a quello che ho intorno (il che è preoccupante per chi, come me, ha già un punteggio altissimo nel test di autovalutazione degli Highly Sensible People, ma questo in un altro post).

310348_10150392808243524_1775363328_nNe ho avuto la prova lampante dopo la mia prima vacanza yoga, un ritiro a Ibiza (sì, esiste una Ibiza parallela, verdissima e rilassante, che è un’inaspettata meta yogica) da cui sono tornata arricchita di serenità, entusiasmo e pensieri luminosi. Peccato che al mio ritorno mi sia anche scontrata con la realtà della mia vita di sempre e della città in cui allora abitavo, Milano. E molte cose mi disturbavano: il chiasso inutile, la disarmonia delle strade trafficate, ma soprattutto l’aggressività inconsapevole della maggior parte delle persone che incrociavo. Ho avuto la fortuna/sfortuna di fare un aperitivo, la sera stessa, con una conoscente tutta battute cattive, competizione sterile, pettegolezzi volgari e veleni sui colleghi. Ho capito che quel posto, quella dimensione, non facevano più per me. O meglio, ho resistito un altro anno, il tempo di gestire la transizione e capire che volevo fare di me, ma il mio sguardo era cambiato quella sera stessa.

IMG_4002Ora, è probabile che io abbia messo a fuoco, dopo la mia prima piccola immersione yogica, quello che andava e quello che non andava nella mia vita, e compreso che alcune insoddisfazioni che intuivo solo vagamente erano in realtà figlie di un contesto facilmente modificabile. Ma è anche possibile che un lavoro su di me, come la pratica regolare sul tappetino, in cui si affinano le sensibilità e acuiscono le modalità di ascolto interiore mi abbia reso sì più morbida, ma anche più vulnerabile. Vulnerabile è bello, lo dicono in tanti. Ma è importante anche sapersi schermare all’occasione, filtrare l’eccesso di informazioni o di sensazioni per non lasciarsene travolgere. E saper gestire quell’apertura, quella morbida disposizione che si hanno una volta usciti dalla pratica.

Una volta camminavo serena verso la macchina dopo una lezione particolarmente bella e ho trovato sul cruscotto il foglietto in cui una persona mi insultava per come avevo parcheggiato (tra l’altro avevo posteggiato effettivamente male: di fatto aveva ragione il mittente). Quell’insulto è stato uno schiaffo tanto più forte quanto più ricettiva ero io in quel momento, ed è anche lo specchio perfetto di come la dolcezza dello yoga si scontri spesso con l’aggressività del mondo, e non sempre la prima riesce a mitigare la seconda, anche nelle nostre reazioni interiori. A volte capita il contrario: sei così soffice e delicata che tutto sempre più forte, grande e brutale.

Io di certo ho imparato a respirare e riflettere molto di più da quando pratico, e a dare ancora più importanza alla gentilezza, ma mi sono anche scoperta più esposta alle “disarmonie e discromie” del mondo, più bisognosa di ritirarmi occasionalmente in uno spazio armonico e protetto. Ed ecco il nocciolo della questione, e la questione città: non dovremmo essere in grado di creare questo spazio armonico e riparato dentro di noi, così da poterci mescolare anche ai contesti più stressanti senza venirne del tutto sopraffatti, come mi capita sempre più e come mi è successo a Londra? Come trasformare la vulnerabilità in semplice consapevolezza e come filtrarsi senza anestetizzarsi, mantenendo intatta la propria sensibilità, che senz’altro è una virtù, ma allo stesso tempo non essere, per dirla melodrammaticamente, foglie al vento? Si accettano consigli, pratiche, mantra, meditazioni.

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