Di limiti e confini

(confessione con domanda di una ex fobica che non accetta più i suoi limiti)

«Wherever your edge is, that’s exactely where you need to be for the day» («Ovunque sia il tuo limite, è lì che devi fermarti per oggi»), tuba nella sua voce soffice Tara Stiles in uno dei suoi video–à-porter. Di diversa opinione è il mio maestro, che in una delle sue lezioni corroboranti ho sentito dire «Quando vi sentite stanchi, resistete ancora un respiro e poi vi fermate». E sappiamo come “ancora un respiro” possa essere un tempo lunghissimo durante asana impegnative. Ma allora qual è il rapporto tra una buona pratica (yogica, ma in fondo anche nella vita) e i propri limiti? Un rapporto di esplorazione rispettosa, mi verrebbe da dire. Ma tra il dire e il fare ci si mette il tappetino.

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E sul tappetino succedono molte cose. Ci si estranea, e al contempo si respira all’unisono con il resto della classe. Si cerca di tenere a bada la mente, con le sue divagazioni e pretese (yoga chitta vritti nirodah non lo dico io, ma un certo Patanjali). A volte ci si riesce, a volte no. Soprattutto quando si ha a che fare con le chiacchiere, le puntualizzazioni, le disposizioni dell’ego. Alzi la mano chi non ha mai gongolato per un’asana venuta particolarmente bene, o per quei doloretti muscolari del giorno dopo che ci raccontano di quanto abbiamo lavorato bene. Però poi ci sono giornate come oggi, in cui dopo un’intensa pratica meridiana mi sento stanchissima e in cui schiena, cosce e cervello mi segnalano che ho effettivamente “tirato troppo”. Sono le volte in cui mi dico che di yoga non ho capito niente, se “per fare le cose fatte bene” mi massacro come se fossi una che suda sette camicie in palestra per dimagrire (con il massimo rispetto per chi lo fa, solo che non è questo il senso dello yoga). Il punto è che il bisogno di fare le cose bene, la genuina vanità di vedere che c’è chi ci sbircia ammirato dal tappetino a fianco, la voglia di dare il massimo possono portare anche lo yogi più saggio, posato e coscienzioso a usare il proprio corpo con poca gentilezza, per poi risentirne, e non solo fisicamente.

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Il mio caso, poi, è particolare: quando ho iniziato a praticare, diversi anni fa, ero reduce di un lungo periodo di inattività seguito a un breve ma intensissimo periodo di attacchi di panico, la cui ombra funesta mi ha seguito a lungo anche senza che me ne accorgessi, con il risultato velenoso di togliermi ogni fiducia nel potere del mio corpo, e di allarmarmi a ogni suo segnale, anche il più normale. Le mie prime lezioni erano discontinue, segnate da grandi buchi temporali tra l’una e l’altra, e spesso interrotte: scappavo via perché faceva caldo, perché mi batteva troppo forte il cuore, perché avevo paura della stanchezza. Credo di non dire niente di nuovo a chi ha sofferto di ansia ipocondriaca, mentre probabilmente chi questi problemi non li ha mai avuti resterà perplesso, o crederà che cercavo scuse per la mia pigrizia. Pazienza.

Fatto sta che, dopo un paio di anni di pratica, lentamente, poi sempre più velocemente, mente e corpo hanno fatto pace, o almeno dichiarato una tregua, e la mia pratica è diventata sempre più sicura e regolare. A un certo punto c’è stata l’inversione di marcia: volevo praticare sempre di più, avevo piena fiducia nel mio corpo, eventuali segnali di stanchezza li ignoravo, i doloretti erano da snobbare con disprezzo. Insomma prima ho sviluppato sadhana, regolarità della pratica, poi però è subentrata un’euforia vagamente tirannica (e, di nuovo, ben poco yogica): volevo riprendermi il tempo perduto, praticare il più possibile, essere sempre in forma. Ringraziavo sentitamente la pratica perché sapevo che aveva avuto un grandissimo ruolo nel restituirmi la fiducia in me stessa, ma allo stesso tempo ero di nuovo schiava della mente: come lo ero stata delle sue paure, adesso lo ero delle sue pretese.

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E qui si torna al concetto di limiti e confini: perché, no, non ho ancora capito esattamente quando e come devo fermarmi, quanto e perché devo “tirare”. Non scappo più a metà lezione come sei anni fa, né mi fustigo più se oso essere meno che in forma eccellente come l’anno scorso, ma ancora oggi mi ritrovo a navigare in quel territorio nebuloso fra dove finisce la pratica e dove cominciano le pretese sterili dell’ego.

Una volta ho intervistato un’insegnante che faceva praticare ragazze che uscivano da storie di seri disturbi alimentari, dunque persone che con il senso eccessivo della disciplina e con lo studio ossessivo del corpo hanno fin troppa dimestichezza. Mi spiegava di quanto fosse utile insegnare loro a fermarsi un attimo prima di dare il massimo, non per ragioni psicologiche, ma perché in quel modo la posizione veniva meglio assaporata, approfondita. Volendo sintetizzare: senza l’ossessione di fare l’asana al meglio, l’asana viene meglio. Saggio, bello. Eppure non me la sento di condannare il mio insegnante che mi fa stancare e che mi esorta a dare sempre un po’ di più: senza di lui, chissà, sarei rimasta piena di dubbi su quanto posso dare e piena di insicurezze sulle possibilità del mio corpo. Ma forse adesso il suo compito è finito e inizia il mio. Dopo la tesi, l’antitesi. E dopo l’antitesi la sintesi. Il che vuol dire che è il momento di ascoltare il mio corpo rispettandone i limiti, senza viverli come una sconfitta. Rispettandone i tempi, senza forzarlo a recuperare quello perduto. E rispettandone l’unicità, senza pretendere prestazioni muscolari che non gli competono. È una lezione difficile, ma se dopo un’ora e mezza di apertura delle anche, di loto in sarvangasana e sirsasana, di equilibri ed esplorazione dei limiti, di «Oh guadala, aspetta che ti faccio la foto», mi sono sentita brava ma non ho assaporato un bel niente, forse devo crearmi un nuovo linguaggio dell’ascolto e regalarmi un po’ più di gentilezza.

Per chi ha letto fino a qui, mi piacerebbe molto sapere il vostro parere, ma soprattutto la vostra esperienza, a proposito di limiti e confini.

4 pensieri su “Di limiti e confini

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